Beni culturali Demoetnoantropologici

E’ noto come l’Italia sia, insieme alla Cina, la nazione che detiene il maggior numero di siti inclusi nella World Heritage List dell’Unesco. Su un totale di 1121 siti (di cui 869 beni culturali, 213 naturali e 39 misti) presenti in 167 stati del mondo, quelli presenti nel nostro paese sono ben 55. E’ altrettanto innegabile che l’Italia possiede un patrimonio museale unico al mondo non solo in termini quantitativi, con 4.908 tra musei, aree archeologiche, monumenti ed ecomusei aperti al pubblico nel 2018, ma anche in termini di diffusione capillare sul territorio. In un comune italiano su tre è presente almeno una struttura a carattere museale, ce ne è una ogni 50 Kmq e una ogni 6 mila abitanti.
Tra questi i musei che raccontano usi e costumi delle comunità locali attraverso collezioni etno-antropologiche sono 574, l’11,7% del totale, molto diffusi soprattutto in Basilicata, nella Provincia di Bolzano, in Calabria, in Valle d’Aosta e Piemonte. Dati numerici, questi ultimi approssimativi almeno per difetto, in quanto molte strutture museali etnografiche sfuggono ai censimenti ufficiali essendo sovente frutto di “iniziative dal basso”, animate da appassionati e cultori della materia, associazioni e piccoli comuni.
In Sicilia secondo uno studio del 2008, non essendo disponibili altri dati aggiornati, erano presenti un centinaio di musei etnoantropologici, di questi solo due sono, ad oggi, di proprietà della Regione Siciliana: il Museo delle Tradizioni silvo-pastorali di Mistretta (ME) e la Casa-Museo Antonino Uccello di Palazzolo Acreide (SR), il resto, almeno per la granparte, sono di proprietà di comuni o enti religiosi.
Un grande patrimonio museografico che vede proprio in Sicilia la sua pioneristica codificazione scientifica ad opera di Giuseppe Pitrè che pubblica, tra il 1875 e il 1897, una monumentale opera in venticinque volumi intitolata “Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane”. Sempre al Pitrè si dovrà poi l’allestimento della mostra etnografica tenuta durante l’esposizione universale di Palermo del 1891-92 e la fondazione del museo etnografico di Palermo inaugurato nel 1910. Nel 1911 fu chiamato dall’Università di Palermo a tenere la prima cattedra di “demopsicologia”.

Nonostante un cosi significativo fermento scientifico il riconoscimento del valore culturale degli oggetti e delle collezioni etnografiche venne sancito solo nel 1939 con la cosiddetta legge Bottai la n. 1089 del 1939. Per la prima volta si puntava alla protezione di oggetti che di per sè (almeno allora) non avevavo un valore monetario intrinseco derivante dall’essere sul mercato dei collezionisti e dei mercanti d’arte. Il valore che il legislatore gli riconosceva era emminentemente culturale: occasione di studio, formazione e conoscenza.
Al di là delle iniziative pioneristiche di inizio Novecento e il riconoscimento contenuto nella legge Bottai, la scarsa attenzione di cui furono destinatari per lungo tempo i beni DEA su base nazionale, ha inevitabilmente ricondotto la disciplina all’ambito regionale e locale, cioè agli stessi territori di produzione, rendendo possibile a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo, una importante stagione di studi sul campo, avviata come salvaguardia del mondo preindustriale. Studi e ricerche che hanno consentito la raccolta di vastissime collezioni, molte delle quali poi confluite, nei quasi 600 musei DEA presenti oggi sul territorio italiano.
Il dibattito scientifico etnografico del tempo ebbe l’indubbio merito, almeno in Sicilia, di influenzare positivamente anche gli organi politici che, nel 1977, nella legge istitutiva dell’Assessorato regionale ai BB.CC., individuarono tra i beni culturali anche quelli etno-antropologici. La successiva legge regionale n.116 del 1980, oltre a prevedere nell’organico delle soprintendenze le figure di dirigente tecnico etnologo e antropologo, autorizzava l’acquisto di collezioni private allo scopo di “pervenire alla formazione di musei regionali di beni naturali e naturalistici e di beni antropologici e della scienza, del lavoro e del territorio”. Atti legislativi importanti che furono il frutto di un lavoro di stretta collaborazione tra il neo costitutito Assessorato ai BB.CC e l’Istituto di Scienze antropologiche e geografiche dell’Università di Palermo con la promozione, già dagli anni Settanta, di convegni e corsi volti specificatamente alla formazione di operatori nell’ambito dei beni etnoantropologici.

E’ sulla base di quella legislazione che ancora oggi le soprintendenze svolgono un ruolo essenziale nella salvaguardia e nella valorizzazione della cultura popolare, materiale ed immateriale, del territorio. Nel campo dei beni DEA l’incessante lavoro di inventario e catalogazione svolto dalle “Sezioni per i beni paesaggistici e demoetnoantropologici” è sostanzialmente finalizzato ad individuare quei manufatti di cui, attraverso la dichiarazione d’interesse culturale (art. 14 del Codice dei BB.CC.), si vuole evitare la dispersione. Ulteriore e conseguenziale compito istituzionale delle Soprintendenze, è quello relativo alla valorizzazione del bene che, dopo essere stato individuato, catalogato e tutelato, mediante la dichiarazione d’interesse culturale, viene reso disponibile agli studiosi, alla cittadinanza e ai visitatori attraverso convegni, mostre e pubblicazioni.