Slow tourism: un volano per lo sviluppo siciliano

Jean-François Revel disse che l’utopia non è limitata da nessun obbligo di produrre risultati e che la sua funzione è di consentire ai suoi adepti di condannare ciò che esiste in nome di ciò che non esiste. Se vogliamo risollevare le sorti della Sicilia, dell’isola più grande d’Italia, la stessa che ne racchiude le origini storico-culturali e sulle cui basi si è evoluta l’antichità dell’Occidente, non serve raccontarsi favole impossibili o sognare mondi utopici. La ricetta, reale e tangibile, accessibile a tutti e rivolta al futuro, c’è già e si chiama turismo lento, una realtà collaudata in molti paesi d’Europa e del mondo.
Se non ci fosse in ballo il destino della nostra terra ci potrebbe scappare persino una risata al pensiero che un modello di turismo nato per valorizzare il territorio, inteso come risorsa naturale, e il patrimonio artistico-culturale abbia raggiunto livelli di sviluppo maggiori in nazioni che non possono contare né sulle nostre bellezze paesaggistiche né sui nostri monumenti e opere d’arte. Ma andiamo oltre, e dopo essere comunque riusciti a farci questa risata amara, tocchiamo con mano i numeri, spietati giudici che governano l’economia del pianeta.
Negli ultimi anni, il turismo ha contribuito al PIL mondiale con una media del 10,4% (dati forniti dall’IRISS attraverso il Rapporto sul Turismo Italiano tra il 2017 e il 2018). Non vi è bisogno di un tecnico per indovinare l’impatto del turismo in Italia su tale dato. Sempre nel rapporto, infatti, si può leggere come tale media dello 10,4% (media mondiale) salga al 13% se si considera solo l’apporto sul PIL italiano.
In altre parole, il turismo resta uno strumento potentissimo, almeno nella teoria, in un paese che fa della «crisi economica» il suo ritornello da più di dieci anni. I numeri del rapporto, però, non ci spiegano il come né il perché di certi risultati, né tantomeno ci permettono di capire se stiamo andando o meno nella giusta direzione. In tal senso ci vengono in aiuto altri dati, stavolta forniti dall’Istat, dati che evidenziano un preoccupante ritardo della Sicilia rispetto a quelli che sono i risultati nazionali in ambito turistico. Per colpa di potenzialità inespresse, gestione povere di idee, ma anche dell’assoluta indifferenza di politiche nazionali – o più legittimamente regionali – che facciano di una virtù che è la bellezza, una virtù economica e prospettica per il futuro.
L’Istat ci dice che nel 2018 solo il 3,5% del turismo nazionale ha toccato il suolo siciliano. Un dato allarmante, drammatico se si considerano le meraviglie paesaggistiche e artistico-storiche che dominano l’entroterra della Sicilia.
Nel corso degli anni, inutile negarlo, l’Italia s’è adagiata sugli allori, preferendo seguire politiche passive secondo l’idea che il proprio patrimonio artistico e paesaggistico fosse un mero strumento da cui ricavare profitti, piuttosto che un trampolino di lancio da valorizzare. Hanno vinto politiche passive in funzione di un’economia di sfruttamento in senso becero, ovvero prive di valori e totalmente in balia di meccaniche capitalistiche vecchie come la società in cui ogni giorno ci rispecchiamo. Questo, va detto, vale un po’ per tutta la penisola, ma trova il suo etere malvagio nella tragedia meridionale, dove l’arte museale è spesso dimenticata, il teatro abbandonato e il paesaggio celato da un velo d’indifferenza che solo i turisti più avventurosi, dominati da uno spirito di eccelsa curiosità, riescono a svelare, il più delle volte per caso, quando non ostacolati da amministrazioni “fantozziane”.
Al bando le aspettative utopistiche, l’ho premesso ! Si accendano piuttosto nuovi moti culturali e imprenditoriali, verso ciò che potrebbe realmente salvare la Sicilia: l’avvento dello slow tourism, quella nuova quanto antica modalità di vivere il viaggio che rappresenta la nuova domanda rispetto a un’offerta che deve, secondo il manifesto di Slow Tourism Italia, «rappresentare il territorio e fare del turismo esperienze di incontro e avvicinamento alla cultura locale».
Il turismo lento, rispetto al turismo capitalistico, chiede meno investimenti (più mirati e non “generalisti”) e di conseguenza meno rischi da affrontare. Al tempo stesso, incrementando la domanda, realizza nuove possibilità lavorative o contribuisce all’incremento di posti di lavoro nelle attività già esistenti. Questo perché lo slow tourism non sacrifica l’acquisto di servizi e beni di consumo, ma ne allarga la richiesta, stimolando al tempo stesso gli enti pubblici siciliani, le amministrazioni locali ma anche gli investitori privati a riscoprire determinati territori – vere e proprie risorse economiche dimenticate – che rappresentano l’opportunità di rilanciare, attraverso il settore turistico, l’intera economia regionale. Semplicemente guardandosi intorno.
Utopia? Io non credo.