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I mulini ad acqua del Manghisi nell’800

I mulini ad acqua del Manghisi nell’800

L’abolizione del regime feudale, sancita dalla costituzione siciliana del 1812, pose fine alla legittimità delle pretese dei baroni sui loro vassalli. I feudatari non potendo più imporre limitazioni al diritto di costruire nuovi mulini o alla possibilità di molire fuori territorio subirono una notevole decurtazione dei loro introiti di “privativa”. Nel 1817 l’amministrazione borbonica, riconoscendo la natura pubblica di tutti i corsi d’acqua, impose agli ex-feudatari il pagamento della tassa sul salto per i loro impianti edificati da meno di trent’anni. La legge rappresentò una rivoluzione epocale anche se, per quasi un secolo, continuarono i contenziosi, tra i proprietari dei mulini e l’amministrazione pubblica. Le leggi eversive dell’asse ecclesiastico del 1792 e ancor di più quella del 1866 varata dal regno d’Italia, ridistribuirono una gran numero di proprietà fondiarie e di opifici.
La legislazione del Regno d’Italia, complicò notevolmente le procedure burocratiche per l’impianto dei mulini, il mugnaio inoltre poteva ottenere la concessione prefettizia per l’uso dell’acqua come forza motrice, solo dietro l’esborso di notevoli somme di denaro. Nel 1877 occorrevano per la concessione prefettizia, non superiore di norma ai trent’anni, 300 £ più 30 £ annue, il cui pagamento decorreva dall’omologazione dei locali e delle condotte da parte del Genio civile, tuttavia alle nuove e più rigide leggi italiane i mugnai, seppur con malumore, si adattarono presto.

La legge n° 4490 del 7 Luglio 1868, sancendo oltreché la reimposizione della tanta odiata tassa sul macinato e la sua riscossione da parte degli stessi mugnai, provocò invece una vera e propria sommossa popolare, con momenti di particolare tensione che sfociarono in una vera e propria rivoluzione delle macine. I mugnai infatti avrebbero riversato periodicamente le quote riscosse in base alla lettura di un contatore, applicato a carico dello stato alle macine dei mulini, in ragione di una quota fissa, per ogni cento giri di macina. La legge consentiva a coloro che riscuotevano i diritti di molenda in natura di riscuotere nella stessa maniera anche il dazio sul macinato, in base ai prezzi correnti del mercato più vicino. Allo scopo i cosiddetti “mercuriali”, indicanti il prezzo degli sfarinati, firmati dal sindaco nel cui territorio ricadeva il mulino, dovevano essere affissi alle pareti degli opifici. Gli appaltatori della tassa sul macinato vedevano così sensibilmente facilitato il loro lavoro, dovendosi recare periodicamente (di solito mensilmente) nei singoli mulini per riscuotere l’imposta in relazione al numero dei giri delle macine, indicate dal contatore. Il successivo regolamento di attuazione della legge, fu varato solo nel Dicembre del 1869 cosicché le nuove norme entrarono formalmente in vigore dall’anno seguente. Nel Luglio del 1870 la direzione tecnica del macinato di Napoli comunicò al prefetto di Siracusa l’inizio dei lavori necessari ad installare i contatori meccanici in tutti gli impianti. Il risultato dell’applicazione della legge fu catastrofico, quasi tutti i mugnai che avevano in odio il contatore, sprezzantemente definito “u cuntrulluri”, non ritirarono le licenze di esercizio annuali, pur continuando la loro attività. La reazione dell’autorità non si fece però attendere, il 14 Agosto 1871 l’esattore del macino di Noto sospese dall’attività ben 21 mulini del circondario, inviando ad eseguire i suoi ordini la forza pubblica. Al di là del rispetto della legge i mulini ricoprivano però un importantissima funzione sociale, cosicché iniziò a diffondersi un forte malumore nella popolazione che non poteva più procurarsi l’elemento essenziale alla sopravvivenza. I sindaci si avvalsero così della possibilità di richiedere alla prefettura l’autorizzazione a riaprire i mulini “per interesse dell’ordine pubblico”, nell’estate del 1871 furono così riaperti, nel circondario di Noto ben 17 mulini. Quelli animati dal fiume Manghisi-Cassibile furono: il mulino Manghisi, per le esigenze degli abitanti di Noto, quelli denominati Cava Grande e Petracca in favore degli abitanti di Canicattini infine per le esigenze di Avola furono riaperti i mulini Cassibile e Toscano.
I mulini riaperti per motivi di ordine pubblico erano affidati alla gestione di un “amministratore governativo” che riscuoteva il dazio sul macinato e sovrintendeva al lavoro di operai salariati dall’amministrazione comunale in cui ricadevano. La linea dura condotta dal governo ebbe i suoi frutti, la protesta infatti si sgonfiò presto, nel 1872 la quasi totalità dei mugnai ritirarono la licenza.

Anche se nell’ultimo scorcio del secolo buona parte dei mulini del Manghisi-Cassibile erano ancora di proprietà aristocratica, mutarono sostanzialmente i rapporti tra le classi sociali. I pochi mugnai proprietari, ma anche gli stessi affittuari interagivano con gli ex-feudatari sulla base di posizioni di diritto ormai certe e codificate. Le cause intentate da alcuni mugnai, delineano chiaramente l’inversione dei “rapporti di forza” con la nobilità agraria, da sempre proprietaria non solo dei mulini ma dello stesso corso d’acqua. Seppur definendosi semplici “villici”, non risparmiavano di indirizzare a tutte le autorità interessate dettagliate denunzie anche contro personaggi di spicco del mondo aristocratico. Nell’ultimo trentennio del secolo il processo eversivo della feudalità era oramai talmente radicato, anche dal punto di vista sociale, da giustificare non solo la denunzia degli abusi subiti, ma anche una chiara e conseguente tutela sanzionatrice da parte dell’autorità pubblica.
La causa intentata dal mugnaio Salvatore Gallo, il 7 Marzo 1877 ci è ancora utile per comprendere il rinnovato clima sociale. Salvatore Gallo scriveva: “Il barone Iudica ha fatto scavare un fossato nelle di Lui terre rivierasche al detto fiume, per mezzo del quale altera lo stato del corso dell’acqua, in pregiudizio dell’uso pubblico”. Dopo un lungo e serratissimo carteggio, tra le diverse autorità preposte, già il 30 Marzo dello stesso anno il barone Iudica era dichiarato contravventore da un funzionario del genio civile recatosi sul posto. Dalla relazione di quest’ultimo è possibile conoscere la reale portata del motivo del contendere: “…il Barone Iudica proprietario del mulinello in detto ex-feudo Arco, che giace a due chilometri circa ed al sottocorrente del mulino del Gallo, ritenendo che il mulino di quest’ultimo perché accessibile ai carri e prossimo alla via a ruota che da Noto porta a Canicattini, facesse venir meno il negozio del proprio mulino, si credi in diritto di fare una nuova diga al sopra corrente di quella già esistente…. si è permesso deviare le acque e restituirle al torrente metri 10 dopo l’antica diga ed ove il Gallo non può imboccare le acque.” Il motivo che aveva spinto il Gallo a sporgere denunzia è dunque ben chiaro: salvaguardare il proprio lavoro anche contro una persona molto influente. Cogliendo pienamente la pesantezza delle accuse lanciate dal funzionario va però sottolineata, una singolarità che afferma ancora più marcatamente, il radicale mutamento di condizioni sociali che dagli atti della causa è possibile cogliere. Cesare Iudica infatti, non era soltanto il facoltoso barone di Baulì e di molti altri feudi iblei, ma proprio in quell’anno sindaco di Palazzolo, sommava cioè nella sua persona oltreché l’antico prestigio derivatogli dal titolo nobiliare, la moderna autorità della carica pubblica ricoperta.

Marco Monterosso

Esperto in promozione turistica e management del patrimonio culturale e ambientale... con una sfrenata passione per il territorio siciliano ! Ha scritto "qualcosa" che puoi vedere su: https://independent.academia.edu/MonterossoMarco

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